Falsi miti e spiegazioni superficiali: la psicologia ci viene in aiuto
Non ha sempre portato sfortuna.
In certe epoche storiche -nell’antico Egitto veniva considerato il messaggero degli dei in terra, ad esempio- era addirittura considerato sacro.
Gli antichi Romani, poi, erano soliti spargere le ceneri di gatti neri sui terreni al fine di scongiurare la crescita degli infestanti.
Sono questi, in linea di massima, gli esempi cui di solito si ricorre quando si vuole spezzare una lancia a favore del nostro meraviglioso gatto del colore della notte.
Eppure non è così.
Proviamo ad analizzare da un punto di vista psicologico-scientifico i due esempi di cui sopra.
Non si può non tener conto di quanto il gatto nero fosse legato al mondo dei morti (gli dei, di cui il gatto era messaggero, vivevano nell’aldilà) e a quell’alone di mistero che da sempre li circonda (le ceneri, l’erba infestante).
Questo persino in quelle società dove non si riteneva portasse sfortuna.
E non in quanto gatti -anche se il gatto, indipendentemente dal colore, non sempre se l’è passata bene, anzi- ma in quanto neri.
Così come neri erano i gatti associati alle streghe ed al culto del demonio durante il medioevo.
Per giustificare la nascita della leggenda che vuole porti sfortuna il vederne uno attraversarci la strada, poi, si adduce una stramba spiegazione.
Secondo questa ipotesi, i cavalli li avrebbero visti solo all’ultimo istante e sarebbero quindi imbizzarriti.
Tesi che si scontra con una semplice constatazione: qualunque gatto, sbucato all‘improvviso dalle tenebre, non ha nessuna probabilità di essere individuato in anticipo da nessun cavallo.
Indipendentemente dal colore del suo pelo, neppure fosse bianco…
Si sente spesso poi dire che nelle stive delle navi pirata, essendo abili cacciatori di topi, vivevano popolazioni di gatti neri che -una volta attraccate le barche nei porti- scendevano a riva.
In questo modo gli abitanti delle zone vicine venivano a conoscenza dell’arrivo imminente dei predoni.
Da lì deriverebbe l’associazione gatto nero-pirata-sciagura.
Resta da spiegare come mai nelle stive non ci fossero gatti di altri colori; forse che quelli rossi, ad esempio, non siano altrettanto abili cacciatori di topi?
Per spiegare l’avversione che da sempre ed immotivatamente -mi auguro sia chiaro a tutti- accompagna i gatti neri, non c’è bisogno di aggiungere mito a mito scomodando senza nessun fondamento pirati e cavalli imbizzarriti.
In questo caso la psicologia ci viene in aiuto.
Il colore nero è da sempre associato – non solo nei gatti: avete presente tutti i miti che accompagnano l’uomo nero?- al buio che l’uomo teme fin dai primordi, al mistero e alla morte.
Rappresenta il caos delle origini e si contrappone al bianco, simbolo di luce, purezza e candore.
I nostri antenati tendevano ad attribuire immagini tangibili alle loro paure, proiettandole su qualcosa a loro familiare.
In questo modo, rendendole reali, cercavano di esorcizzarle.
Il gatto, animale notturno, silenzioso, solitario, si prestava benissimo allo scopo, tanto più se nero.
Semplice, no?
Tutto il resto sono solo leggende.