IO SONO TUO E TU SEI MIO

La vera storia di Drug, arrivato da molto lontano…

di Almo Becello de Dolores

 

Lo conoscevo da tanto tempo ormai, anche se ho iniziato a considerarlo amico dalla prima volta che ho incontrato il suo sguardo.

Nonostante ci vedessimo per pochi giorni all’anno, infatti, non c’era nessun’altra parola che meglio di “amico” stesse ad indicare quello che provavo io per lui.

E, ne sono certo, lui per me.

 

Fu l’insistente abbaiare di cane -di cane grosso, molto grosso, pensai- che mi convinse ad alzarmi dalla sedia e a trascinarmi fuori.

Era la giornata più calda che il buon dio avesse mai mandato su questa terra -almeno lì, ad  Almunecar, costa sud della Spagna- dove il freddo non lo sentiamo neppure d’inverno.

Dovevo consegnare l’articolo -al quale stavo lavorando da settimane- il giorno dopo, per nessun motivo al mondo mi sarei interrotto.

Per nessun motivo al mondo eccetto che per quell’insistente, continuo latrare che, non potevo sbagliarmi, più che un invito assomigliava ad una supplica.

Decisi di prendermi una pausa, tanto, pensai, alla capo redattore non sarebbe andato bene comunque, come da tradizione.

Mi versai tè ghiacciato con menta, aggiunsi altro ghiaccio per contrastare la botta di calore che mi attendeva in strada e mi decisi ad uscire.

 

Steso, proprio steso nel vero senso della parola, sotto alla poca ombra che la mia pianta di limoni proiettava sul selciato rovente, un uomo.

Un uomo e un cane, per la precisione.

Il primo in un silenzio quasi di morte, immobile.

L’altro ad abbaiare.

 

Mi chinai e fu allora che incrociai il suo sguardo, lo sguardo di chi di cose ne ha viste tante se non proprio tutte, comunque troppe e non sempre belle.

Gli diedi il mio tè ghiacciato al ghiaccio e menta, bevve ed iniziò a raccontare.

 

Si chiamava Ivica, veniva da molto lontano.

Girava il mondo in cerca di cosa se l’era scordato.

Così girava soltanto e questo gli bastava.

Unica compagnia, Drug -che sta per “amico” in un qualche dialetto di non so che regione della Russia, e chissà se si pronuncia veramente così, non l’ho mai capito- il suo cane.

 

Si fermò da me una decina di giorni, poi, così come dal nulla era apparso, nel nulla sparì.

 

Non potete immaginare il balzo che feci sulla sedia quando, a distanza di un anno, sentii di nuovo il cane abbaiare.

Mollai l’articolo che stavo scrivendo -non sarebbe andato bene comunque al capo redattore nemmeno quella volta, come da copione- e mi precipitai fuori.

 

Ivica e Drug erano di nuovo lì, sotto all’ombra della pianta di limone.

Così per tanto tempo a venire, come la rondine torna ogni anno, li vedevo comparire.

 

Parlava una lingua che comprendeva tutte le lingue del mondo mischiate assieme, mi raccontava di genti e terre lontane, di amori perduti, di notti dal cielo stellato tanto luminose e belle da togliere il fiato e di lande di ghiaccio dove non sorge mai il sole.

Spiegava cibi e bevande in quel suo modo tanto speciale da farmene quasi sentire il sapore.

Portava la vita in quell’angolo nascosto di mondo -Almunecar, sud della Spagna- e me la regalava.

Poi, dopo un po’, ripartiva.

 

Era passato un anno ormai dall’ultima volta quando sentii di nuovo abbaiare.

Sotto alla pianta di limoni soltanto Drug.

Ivica, quella volta, non c’era.

Mi si gelò il sangue nelle vene.

Attaccato al collare del cane un piccolo astuccio di cuoio.

Non lo avevo mai visto prima d’allora.

Lo aprii, all’interno conteneva un foglio di carta ripiegato mille volte su se stesso.

“Almo, amico mio”, ci stava scritto sopra, “prenditi cura di lui”.

 

Quel giorno piansi così tanto come nemmeno immaginavo si potesse fare, poi abbracciai e strinsi forte il cane.

“Vieni, bello”, dissi, “andiamo dentro”.

“Adesso io sono tuo e tu sei mio”.