ANGEL

Sono un cane e questa è la mia storia

Avete presente quei posti su in montagna che se non ce li hai nel cuore non ci metti piede neanche a morire?

Sono per metà case diroccate e per l’altra metà case sistemate da chi un tempo ci abitava e adesso arriva solo per passarci le vacanze, quando si fa estate.

Ecco, io sono nato in un paese così.

Nella metà diroccata.

 

A vederla da fuori, casa mia, potevi scommetterci che fosse abbandonata.

Di quella che una volta era una fattoria non restava che il ricordo dei pochi vecchi che ancora abitavano il paese e la rabbia di chi nonostante tutto e tutti ci viveva.

Uomini e animali assieme.

Le vacche da latte, i conigli, i polli e le galline, qualche capra, un asinello, gatti e cani da caccia e io, buono a farci niente, un bastardino di nome Angel.

Questa era la famiglia.

I cavalli bardigiani, invece, il padrone li vendeva.

Ogni volta che ne vedevo partire uno pregavo dio -il dio degli animali- che lo portassero da un buon cristiano, che andasse a stare bene.

Meglio di come si passava la vita noi lassù in montagna, a dire il vero, ci voleva anche poco.

Non era colpa del padrone, questo lo sapevo, io lui lo capivo.

 

Il suo universo si era sgretolato a poco a poco, così lentamente da dargli quasi l’illusione che non fosse vero, che tutto potesse tornare come prima.

Invece…

Resisteva a fatica, in bilico fra il mondo antico e la modernità della valle che da qualche parte, laggiù in fondo, lo sapeva bene che ci fosse.

A volte credeva di essere stato condannato all’inferno.

E per sopportarne il peso, adesso che era rimasto solo, beveva.

Era successo che la gente -un po’ alla volta ma anche a famiglie intere, in un colpo solo- se ne era andata.

Le strade, i sentieri, le corti, gli orti, i campi, tutto era stato invaso dall’erba grama.

Le pietre lisce dei tetti avevano ceduto al peso della neve, che da queste parti sapeste quanta ne viene!

Dei pilastri di pietra non restavano che i monconi a puntare il cielo.

 

Solo la chiesa se la cavava bene.

Arrivavano donazioni dalla lontana America, fatte da chi su quel sacro altare era stato battezzato, ma sarebbe morto altrove.

Immigrati pronti a pagare il conto al proprio destino mandando soldi a quella che ancora e per sempre avrebbero continuato a chiamare casa, sebbene vivessero dalla parte opposta del mondo.

Così un anno si sistemava il campanile e si tornava a dare voce alle campane che col tempo eran diventate roche, quell’altro si dipingeva la facciata, oppure si prendevano le panche tutte nuove, che poi tanto sarebbero rimaste vuote.

Più bestemmie che preghiere, insomma.

Anche se dio -quello degli uomini- sono sicuro le prenda un po’ allo stesso modo, quando sono sincere.

 

Così si passava il tempo lassù in montagna, nella parte diroccata del paese.

Erano calci, urla, pianti e carezze e abbracci tanto stretti da togliere il fiato.

Tutti sentimenti forti, estremi come la vita che ci era toccata in dono.

Mangiare poco, a volte carne, spesso solo pane.

Fango, terra dura di ghiaccio oppure distese di polvere sollevata dal vento, secondo le stagioni.

Campi, prati, fiori, fossi, erba verde, fieno e zolle scure.

Questo era.

Ed era sempre uguale.

Fino a quel giorno, almeno.

 

Furono le vacche a dare l’allarme.

Strillavano così tanto che non la smettevano più, che le han sentite persino dai paesi vicini.

Sono venuti a mungerle appena prima di farle impazzire.

Ciò che era successo lo vennero a sapere i gatti per primi.

Presero la via dei monti senza nemmeno voltarsi e nessuno li vide più.

Il giorno dopo arrivò il camion, quello che serviva per portare via i bardigiani.

La stalla si vuotò, nei recinti avrebbe iniziato a crescere l’erba, il silenzio piombò sull’aia.

Niente più canto del gallo ad annunciare il nuovo giorno.

Il padrone era morto.

 

Finii in canile, che non era poi nemmeno male.

Un buon pasto una volta al giorno, un tetto sulla testa, coperte calde.

Ci passai qualche tempo, non so nemmeno io dire quanto.

Che senso avesse tutto questo me lo chiedevo mille volte in un giorno.

Nella mia testa di cane -in parte segugio e in parte non si sa da dove son saltato fuori- qualcosa si era rotto per sempre.

Decisi che sarei tornato a casa.

 

Avevo sentito dire dal padrone che chi se ne era andato dal paese si coricava alla sera con la morte nel cuore.

Tanto valeva allora morire per davvero, ripeteva e intanto beveva.

Non avrei fatto la stessa loro fine.

Era giorno di visite al canile, mi misi buono buono in un angolo, a me nessuno mi voleva.

Oppure forse…forse mi sbagliavo.

Ehi, stavano proprio parlando di me.

 

“L’abbiamo salvato da una situazione difficile”, diceva il volontario.

“Poverino, poverino”, rispondeva in una straziante cantilena quella signora dall’aria gentile che attraverso la rete mi fissava.

E “che pena, che disgrazia, che sfortuna”, continuava, “lo lasci uscire, me lo faccia vedere da vicino”.

 

Di quello che successe dopo ricordo poco.

So che iniziai a correre senza fermarmi mai.

Puntavo dritto ai monti, altro che me lo faccia vedere da vicino, oh che pena, che compassione, povero cagnolino.

Quando la macchina mi colpì non provai dolore, solo un lampo bianco, poi più niente.

 

Adesso sono in cielo, in un posto che si chiama il paradiso.

Me l’ha detto il padrone, ci stava aspettando.

Ci siamo di nuovo tutti, tutti insieme.

Le mucche e i cavalli, l’asino, i polli e le galline e i conigli.

I gatti no, saranno ancora in giro per i boschi, sicuro come l’oro.

 

La storia finisce qui, così è andata.

E volete sapere cosa ho scoperto?

Il dio degli uomini è lo stesso dio degli animali.